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Mi colpì il suo sorriso così penetrante

Enzo Mattina

Nel 1964, partecipando a qualche riunione nella sede della Cisl in via Medina a Napoli, mi ritrovai tra le mani un numero di “Dibattito sindacale” e venni così a conoscenza di Pierre Carniti. Mi abbonai e scrissi anche a Pierre, che mi rispose con una lettera in cui mi parlò della prospettiva dell’unità sindacale. 

Lo conobbi personalmente nel ’69, in occasione della grande manifestazione romana della categoria e della trattativa al ministero del Lavoro per il rinnovo del contratto nazionale.

Mi colpì il suo sorriso così penetrante, la capacità di usare parole semplici e stringate per spiegare concetti complessi, la fermezza delle posizioni che non scantonava mai nell’arroganza, la straordinaria capacità di analisi cui seguiva sempre una proposta conseguente.

Nel 1971, quando fui eletto nella segreteria nazionale della Uilm, lo ritrovai a Roma e iniziò un percorso che, oltre una profonda convergenza sul piano politico e sindacale, ha via via consolidato un’amicizia durata per 47 anni.

Straordinari furono gli anni della costruzione della Flm, che non fu certo una passeggiata, se consideriamo le diversità non proprio marginali tra Fim, Fiom e Uilm sulla confederalità, le problematiche connesse all’autonomia dai partiti, la relazione tra regolazioni legislative e contrattuali. 

L’idea dello scioglimento delle tre federazioni maturò tra lui e Giorgio Benvenuto e non fu facile trovare la quadra per avere anche Bruno Trentin sulla stessa posizione; alla fine la Flm non solo nacque e si strutturò, ma fece da spinta alla costituzione della Federazione Cgil-Cisl-Uil.

Noi della Uilm dovemmo, in un primo tempo, far fronte ad un’azione di contrasto tanto forte da parte della nostra confederazione da dover subire un provvedimento di espulsione. Per noi quel provvedimento fu un vero e proprio trauma, ma Pierre ci fu vicino umanamente e si fece promotore, con il consenso di Trentin, di un sostegno economico che ci mettesse in condizione di continuare ad operare.

La Flm proseguì il suo cammino e i passaggi successivi nelle rispettive confederazioni di Carniti nel ‘74, di Benvenuto nel ‘76, di Trentin nel ’77, lasciarono a Franco Bentivogli, a me e a Pio Galli l’onere di un’eredità impegnativa e onerosa.

La crisi petrolifera con le sue ricadute sulla struttura produttiva e sulla vita del Paese, il fenomeno del terrorismo, che dal ‘69 in avanti aveva sparso sangue in tante città italiane, resero la nostra gestione della categoria particolarmente delicata e complessa. Vi facemmo fronte con la forte coesione della segreteria (vi erano tra gli altri R. Morese, G. Italia, D. Paparella, T. Lettieri, A. Airoldi, O. Del Turco, S. Veronese, F. Lotito) e con l’appoggio costante dei nostri tre Maestri.

Li ritrovammo vicini anche nella vicenda Fiat dell’autunno ‘80 e continuo a essere convinto che, se non ci fossero state le interferenze politiche, indotte dalla fine dell’esperienza del compromesso storico, forse l’esito sarebbe stato migliore di quello che le circostanze imposero. In sostanza, Enrico Berlinguer, determinato a far pagare alla Dc il prezzo del suo voltafaccia, fece di tutto per trasformare la vertenza nella palingenesi della sinistra italiana. Non è un caso che manifestò esplicite accondiscendenze, dinanzi ai cancelli di Mirafiori, rispetto a una ventilata occupazione degli stabilimenti e, qualche giorno dopo a Bologna nel comizio di chiusura della festa de L’Unità, arrivò a mettere sullo stesso piano la democrazia italiana e la dittatura militare polacca, invocando che le trattative sindacali si svolgessero in piazza: “a Torino come a Danzica”.

A inizio ‘81 lasciai la Flm per entrare nella segreteria confederale. La vicenda Fiat, però, mi aveva segnato e pubblicai un saggio sulla vertenza per i tipi della Rizzoli. Pierre fu tra i primi e tra i pochi sindacalisti ad attestarmi il suo giudizio positivo.

Non posso dimenticare neanche che, quando sempre nell’81, resi pubblici con un articolo su “L’Avanti” i miei convincimenti sulle avvenute intrusioni del terrorismo in alcuni consigli di fabbrica, Pierre mi chiamò per darmi il suo appoggio nel profluvio di pesanti critiche che mi vennero addosso, perché ancora era corrente l’opinione che a sinistra vi fossero solo compagni che sbagliavano. 

Negli anni che seguirono il progetto unitario andò progressivamente perdendo la sua vitalità e maturai la decisione di lasciare il sindacato, approdando al Parlamento europeo nelle elezioni del 1984.

Le frequentazioni con il mondo sindacale, inevitabilmente, si diradarono, ma non s’interruppero mai del tutto. Ripresero nel 1987, quando Pierre m’invitò a una riunione del Comitato di difesa del cittadino, organizzato da lui stesso, Giorgio Ruffolo, Carlo Caracciolo, Sabino Cassese, Giuliano Toraldo di Francia, Adolfo Gatti, Carlo D’Inzillo, Antonio Giolitti. Partecipai con curiosità, ma non avrei immaginato di uscire dalla riunione con la nomina a Presidente, su proposta di Pierre. 

Nonostante le continue trasferte a Bruxelles e nel mio collegio elettorale che comprendeva tutto il Mezzogiorno continentale, mi impegnai a trasformare il Comitato in un Movimento con statuto e iscritti, assumendo come prioritario l’obiettivo di dare piena attuazione a una legge del 1969 che introduceva l’autocertificazione per l’attestazione dei dati personali, che era rimasta totalmente inapplicata dal tempo della sua entrata in vigore.

Nell’89 ci furono le elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo e fui rieletto. La novità fu che anche la candidatura di Pierre andò a buon fine e ci ritrovammo a Bruxelles.

Ognuno di noi doveva far parte di due commissioni parlamentari; io restai nella commissione economica e in quella per la coesione territoriale, lui andò a occupare il posto nella commissione per le politiche sociali. Si deve a lui se le questioni delle politiche del lavoro, che fino ad allora erano rimaste nella competenza degli Stati nazionali, divennero uno dei temi di fondo della politica di coesione europea.

L’attenzione in quei giorni e mesi d’inizio legislatura era, però, puntata verso Est, verso i rivolgimenti che stavano azzerando i regimi dei Paesi satelliti dell’Unione sovietica e minando la sopravvivenza della stessa Urss.

Stava cambiando la storia e noi ci compiacevamo di trovarci in un punto d’osservazione privilegiato. Il 9 novembre del 1989 cadde il muro di Berlino ed entrambi ci recammo con il Gruppo socialista nella città ormai unificata.

Non credo che nella mia come nella sua esperienza politica vi sia stato altro momento di maggior emozione per l’atmosfera di festa che si viveva. In una serata, al tavolo multinazionale di una birreria ho sentito Pierre cantare il canto più unificante del Gruppo, che era Bella ciao. Aveva anche un boccale di birra in mano, ma non ricordo se la bevve; io che non sono un buon bevitore, quella sera mi lasciai andare. Pensavamo di essere all’alba di un tempo e di un mondo migliori! Peccato che non sia stato così; lui se n’è andato portandosi dietro la delusione, capiterà per ovvie ragioni anagrafiche anche a me.

Nelle elezioni europee del 1994 non mi ricandidai, optando per la candidatura alla Camera dei deputati. Fui eletto tra i Progressisti e continuammo a frequentarci, perché i neoeletti che non venivano dalle fila comuniste si ritrovavano nella sede dei Cristiano sociali,in piazza Adriana.

Dall’impegno politico attivo mi sono allontanato nel 1996, ma, salvo il periodo immediatamente seguente al mio passaggio a funzioni manageriali, con Pierre mi sono ricorrentemente ritrovato dopo che, per iniziativa di Raffaele Morese, nacque l’associazione Koiné.

Chiudo con qualche altro piccolo ricordo di vita comune. Per alcuni anni abbiamo abitato abbastanza vicini e i nostri figli andavano nello stesso asilo. Ci incontravamo lì talvolta ad accompagnarli. Ho sempre pensato che quegli incontri abbiano reso più confidenziali i nostri rapporti in uno con il fatto che entrambi non nascondessimo il nostro cattolicesimo praticante. 

Gli debbo anche essere grato per avermi indirizzato nel ‘96 a uno straordinario cardiologo, il prof. Maseri, che diagnosticò la mia cardiopatia silente e mi indusse a sottopormi all’intervento per l’installazione dei bypass. 

Ho un grande rammarico: non aver potuto dirgli che ho riveduto la mia contrarietà alla sua idea di impegnarci per una nuova riduzione dell’orario di lavoro. A fronte dei profondi e imprevedibili mutamenti della quarta  rivoluzione industriale, ho maturato la convinzione che avesse ragione e che dobbiamo mettere all’ordine del giorno quell’obiettivo. Può essere uno degli assi portanti di una rivisitazione dei rapporti di lavoro per evitare che i valori dell’uguaglianza, della libertà, della solidarietà e della democrazia si riducano a materiali di archivio per il timore diffuso di misurarsi con i mutamenti profondi di contesto. 

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