Franco Marini
Giovanissimi, come tanti altri ragazzi della nostra generazione, abbiamo nuotato entrambi nel fiume largo dell’associazionismo cristiano-sociale: padano nel suo caso, abruzzese del Fucino nel mio. Avremmo potuto volgerci alla politica o alle professioni civili; alla fabbrica o agli impieghi pubblici; alla DC, o alle Acli o alla Fuci…
Incrociammo invece il Sindacato Nuovo del Riformismo modernizzatore, la Cisl di Giulio Pastore. E a partire da quell’incontro abbiamo condiviso una vicenda generazionale che è stata più omogenea, organica e compatta di quanto superficialmente venga talvolta narrato.
Quando la seconda generazione cislina si affacciò alla ribalta alle spalle della prima linea dei fondatori, fu semplicemente nell’ordine logico delle cose che Carniti e Marini, e tanti altri giovani dirigenti e quadri della Cisl, costituissero il nerbo vivace dei sostenitori delle incompatibilità, nella battaglia per rendere non sovrapponibili le funzioni di rappresentanza parlamentare e politica e quelle di dirigenza sindacale.
La fondamentale consonanza originaria ha certamente contribuito a fare in modo che la dialettica, in particolare quella tra le cosiddette anime della Cisl, per quanto intensa, abbia poi sempre visto esiti unitari, nonostante marginali rotture. Sono anche persuaso che non sia mai esistita, se non in una vulgata semplificatoria, una contrapposizione irriducibile tra un’ala radicale (centrata sul sindacato industriale a egemonia nordista dei meccanici Fim), contrapposta ad un’ala moderato-continuista (centrata su pubblico impiego, servizi e lavoro agricolo).
Con riferimento al Pierre che ho conosciuto nel cameratismo del vivaio di Fiesole nel 1956, debbo dire che il suo realismo non è stato mai inferiore a quello che convenzionalmente mi viene attribuito e che, in definitiva, è una delle peculiari “cifre” di tutta la Cisl.
Il Carniti alla guida della Fim milanese e lombarda, nel dopo-Volontè della generazione moderata “dei sindacati liberi”, fin dalla vertenza degli elettromeccanici dei primi anni Sessanta non portava avanti altro che la classica, tenace intenzione del sindacalismo de-ideologizzato e riformista: partire dalle scaturigini aziendali della rappresentanza e del potere dei lavoratori organizzati. È sempre lì che il confronto con le controparti conosce le fasi fisiologiche dello scontro, della mobilitazione e dello sciopero, della trattativa e della costruzione del punto di caduta negoziale, finalizzato alla firma di un accordo.
Sto descrivendo un paradigma che appartiene a ogni sindacalista. Certo, la duttilità pragmatica di Carniti è stata contenuta in un involucro di caratteriale riserbo personale, che taluni definiscono spigolosità, o scostante sobrietà o, per uscire da ogni psicologismo, intransigentismo sindacale. Ma una serie di passaggi cruciali nella vicenda Cisl ci rivela piuttosto una capacità (che spesso abbiamo costruito assieme) di gestire le situazioni più delicate, risolvendole in avanti.
Mi riferisco in primis al capitolo, non certo secondario, dell’unità sindacale: un filo conduttore mai del tutto tessuto ma anche mai del tutto reciso, attraverso cui è possibile ripercorrere l’arco storico del movimento dei lavoratori in un secolo di tensioni e pulsioni alterne, che condiziona ancora la contemporaneità del movimento sindacale confederale e che è emerso in superficie col ’68, l’autunno caldo e gli anni che videro le grandi mobilitazioni operaie, guidate in posizione e ruoli non secondari anche dalla Fim di Macario prima e di Carniti poi.
Durante i tumultuosi anni Settanta la gestione e l’assorbimento della spinta, originariamente esogena e giovanile-studentesca, del sessantottismo è stata la prova sul campo della maturità raggiunta dal movimento dei lavoratori organizzati. Cgil, Cisl e Uil, pur tra aspre difficoltà, di fatto riuscirono a filtrare quelle energie, depurandole, non di rado all’esoso prezzo del sangue di militanti, dirigenti e intellettuali “amici”, mentre i vari appuntamenti interconfederali, come la vagheggiata celebrazione dei congressi che avrebbero dovuto sancire l’unità organica per il 1972, non superarono mai l’asticella della irreversibilità.
I contraccolpi del sessantottismo e il dibattito su quegli scenari determinarono effervescenze notevoli in seno alla Cisl e nei luoghi di lavoro, impegnando dirigenze e apparati. Fu un processo non sempre lineare ed ordinato. Né privo di contraddizioni ripetute o solo momentaneamente sedate.
Un esempio di gestione di quegli epocali conflitti – che furono anche umani, generazionali e di visioni del mondo – fu il congresso Cisl del 1969, in cui Bruno Storti riuscì a realizzare un equilibrio miracoloso, anche se precario, prospettando una via d’uscita sintetizzata nello slogan “potere contro potere”, che puntava a incanalare la protesta, anche operaia, in una più marcata strategia competitiva rispetto ai poteri costituiti.
A zavorrare e infine a perdere, nella disperazione sanguinosa del terrorismo, lo scossone del ’68 contribuì indubbiamente la sua fragilità teorica. Il sessantottismo non avrebbe mai potuto nutrire una fase di rigenerazione sindacale, essendo non solo privo di una visione progressista moderna, ma anche infantilmente ostile a ogni storico compromesso gradualista.
Di tutto questo Carniti è stato sempre lucidamente cosciente; e con lui tutto il quadro dirigente del sindacalismo industriale della Cisl.
E tali consapevolezze consentirono alla Cisl di uscire indenne, e anzi rafforzata, dalla ricerca di soluzioni per incanalare l’energia combattiva della base degli associati e dei lavoratori in generale. Un epilogo di cui ci demmo e ci dobbiamo dare atto e merito tutti, a cominciare da chi fu più esposto in ruoli che sono stati, al contempo, sia di terminali che di termometri dell’inquietudine sociale.
Lo scontro politico sulla praticabilità o meno dell’unità sindacale organica tra le tre confederazioni fu reale e nella Cisl si misurarono liberamente due tendenze capeggiate rispettivamente da Carniti e da me.
La fase agonisticamente più intensa fu vissuta col congresso del 1977, che si chiuse con un rapporto del 55 vs il 45 per cento dei voti a favore della cosiddetta “Tesi 1”. Un rapporto che, proprio per l’appassionata combattività dei delegati che rappresentarono visioni che attraversavano tutte le strutture, sia verticali che territoriali, non poteva che essere il preludio di un processo ricompositivo concluso nel 1979.
Dopo la fine del ciclo Bruno Storti (1976) si passò per la segreteria di Luigi Macario con Carniti aggiunto, per arrivare quindi (1979), in perfetto tandem tra noi, al ticket Carniti segretario generale – Marini aggiunto. Fu poi nel 1985, quando Pierre dichiarava a sua volta terminata la propria corsa, che cominciava la mia guida, con a fianco gli amici Crea e Colombo.
Durante gli anni Ottanta, nelle stagioni critiche e febbricitanti della droga inflazionistica, delle distorsioni prodotte dal fiscal-drag, dell’affannata rincorsa tra costo della vita – scala mobile – recuperi salariali, mai emersero nella Cisl serie alternative di linea, riferibili al tattico Marini e al Carniti delle astrazioni idealizzanti. Dovrei anzi dire che, non solo nella Cisl ma nell’intera Federazione unitaria, quelli furono tempi di preoccupata responsabilità per tutto il sindacalismo italiano.
In quel momento cruciale, la segreteria confederale della Cisl fu compatta attorno a Carniti, di fronte alla forzatura del Pci che, tornando all’opposizione parlamentare dopo la sperimentazione del “compromesso storico”, proponeva il referendum per l’abrogazione del decreto che formalizzava l’accordo: era chiaro che quell’invasione di campo avrebbe avuto conseguenze sulla stessa unità d’azione tra i sindacati.
Si trattò indubbiamente di una vicenda infelice per tutto il movimento dei lavoratori. Non per caso, nelle crepe sociali e politiche che si aprirono allora, si infilò il terrorismo che “gambizzò” Gino Giugni, proprio di fronte a via Po, e poi assassinò vigliaccamente Ezio Tarantelli, per parlare solo dei bersagli sulla frontiera del lavoro.
La Cgil pagò duramente la delegittimazione come soggetto abilitato a negoziare sul terreno sociale, da parte del Pci. Ma nel calore del conflitto non fu immediatamente chiaro che da quel drammatico travaglio sarebbe nata la lunga stagione sindacale successiva della concertazione, che avrebbe visto protagonista la Cisl anche dopo l’uscita di scena, non solo di Pierre ma anche mia, nel 1991.
Il sottotesto di questi appunti è di mettere in luce la continuità dell’ispirazione strategica di un organismo grande e vitale che abbiamo avuto la felice occasione di far crescere, assieme a milioni di lavoratori e a centinaia di migliaia di quadri attivi. Organismo dotato di un imprinting che ha funzionato da saldo binario permanente su cui hanno viaggiato convogli articolati dalla libertà responsabilmente declinata nel tempo e nello spazio da ciascuno di noi.
La stabilità politico-sindacale e organizzativa della Cisl e delle sue strutture è stata troppo ferma per non essere radicata in profondità. E dunque non poteva essere e non è stata frutto di contingenti abilità tattiche, equilibristiche, diplomatiche o peggio compromissorie. Per lo meno questo non è successo per ciò che riguarda il trattativista Marini e il calvinista Carniti.
E qui mi premeva testimoniare un tale rapporto, sempre franco, chiaro, cameratesco, mai viziato da ambiguità o complicità di cordata.
La sostanziale organicità della storia Cisl non è limitata alla parabola dei singoli dirigenti. Potrei allegare una serie di punti topici che riguardano, ad esempio, il valore-cardine dell’autonomia rispetto a governi, istituzioni e partiti che non ha mai limitato la partecipazione personale appassionata al dibattito pubblico o l’intesa automatica, parca anche di parole, con Pierre nelle sedi intersindacali, nei confronti con le controparti datoriali e governative, nei giudizi su uomini e contesti con i quali e nei quali ci siamo trovati ad operare, giudicando e decidendo.
Non ho nascosto il dissenso degli anni Settanta, all’interno della Cisl e con Carniti, sulla “vexata quaestio” unità sì-unità no. Mi sento perciò legittimato a qualche ultima battuta in merito.
Resto convinto che allora la forzatura all’unificazione sarebbe stata sbagliata e avrebbe comportato un drammatico fallimento, a causa della tendenza storica del Pci a eterodirigere una parte rilevantissima del movimento dei lavoratori organizzati. Ma è perfino banale ricordare che oggi la centralità dell’autonomia ispira l’azione di tutte le organizzazioni sindacali.
Bisogna dunque approfittare della favorevole congiuntura storico-politica per cercare di chiudere in avanti il “capitolo dell’unità”.
Certamente, non ho più titoli per esprimere opinioni di merito sulle strade che la Cisl e l’intero movimento sindacale dovrebbero battere per recuperare il protagonismo del secolo passato. Ma certo le relazioni riguardanti il lavoro e la produzione di beni e servizi sempre più diversificati, quando non immateriali, obbligano a profondi ripensamenti che salvaguardino lo spirito e il dna del Novecento, e in particolare quello della Cisl.
Uno spirito che chiede di essere proiettato nel secolo XXI, del lavoro progressivamente destrutturato e bisognoso di nuove tutele.
Di qui l’appello unitario. Un appello che – presumo – sarebbe oggi scritto e firmato “a quattro mani” anche con Carniti.