Anni ’50
Carniti comincia a lavorare a quattordici anni come garzone e fattorino in una tipografia. Poi come commesso in due cooperative, una di Castelleone, l’altra di Cremona. Collabora con un giornale locale e di Cremona è anche la sua fidanzata, e poi moglie, Mirella.
Pierre cresce in un ambiente profondamente agricolo e incontra presto lotte contadine molto aspre, movimenti e correnti ideali tipiche del cremonese, terra di anarchici e di sindacalismo duro.
Diventa amico di Guido Miglioli, che vive a Soresina, a pochi chilometri da Castelleone. Miglioli ha un buon seguito tra i braccianti. Promuove scioperi durissimi, che possono durare anche cinquanta giorni: lotte della disperazione, della miseria.
Con un gruppo di giovani amici Carniti lavora a delle ipotesi di riorganizzazione dell’agricoltura per dare più di potere ai lavoratori del settore, e ai braccianti in particolare. Immagina una sorta di conduzione partecipata, in cui padrone e braccianti stabiliscono insieme le colture, i tempi di lavoro, le parti spettanti a ciascuno.
Carniti viene presto notato e selezionato dalla Cisl per frequentare il “corso lungo” al Centro Studi di Firenze. Quando accetta di partecipare, il suo bagaglio di idee e di esperienze è già molto ricco. Nella stessa annata, tra i suoi compagni ci sono anche Mario Colombo e Franco Marini.
Carniti si organizza anche autonomamente negli studi, concentrandosi in particolare sul sindacalismo americano e sui testi di Selig Perlman (Ideologia e pratica dell’azione sindacale, con prefazione di Gino Giugni), Franco Ferrarotti, Mario Romani.
La lezione ricevuta a Firenze darà i suoi frutti negli anni del risveglio operaio, quando gli insegnamenti e i principi che guidano la costruzione di un sindacato nuovo, democratico e moderno offrono “al più sperduto sindacalista della Cisl – dirà lo stesso Carniti – una cassetta degli attrezzi così solida da non avere alcun complesso di inferiorità nei confronti delle fumisterie simil-teoriche degli intellettuali comunisti”.
Al termine del corso non è previsto che i giovani sindacalisti tornino al loro territorio di provenienza. Partono invece per fare esperienza verso strutture e ambienti che non conoscono, sostenuti economicamente dalla confederazione nazionale.
A Carniti vengono proposti i metalmeccanici e Milano. “Non esattamente – dirà lui – in perfetto accordo con le mie preferenze dichiarate”. E a Milano Carniti trova come segretario provinciale Pietro Seveso, un dirigente non giovane ma saggio, che gli lascia tutto lo spazio di cui ha bisogno.
Innanzi tutto, Carniti stabilisce un rapporto non conflittuale con la Fiom Cgil, puntando a una convivenza utile per tutti sulla base della constatazione che – divisi – i lavoratori e il sindacato non possono che contare nulla.
L’unità d’azione diventa il motore del protagonismo per un’intera generazione di giovani sindacalisti. In un clima interno non semplice e talvolta di sospetto, si avviano però centinaia di vertenze aziendali e gli iscritti alla Fim cominciano a moltiplicarsi: da 10 a 30 mila nel giro di quattro anni, dal 1959 al 1963.
Anni ’60
All’inizio degli anni Sessanta entra nel sindacato una generazione nuova, che intuisce quello che sta covando sotto la cenere, nella società prima ancora che nel sindacato. Il contesto economico è migliorato, il lavoro non manca, ogni speranza sembra a portata di mano. Milano ormai è una delle più grandi metropoli industriali d’Europa: una prateria sconfinata in cui seminare i germi del sindacalismo operaio.
Carniti e i suoi sono poco più che ventenni; giovani sindacalisti che non hanno vissuto direttamente la scissione sindacale e guardano al rapporto con le altre organizzazioni in un’ottica competitiva, agonistica, senza pregiudiziali e contrapposizioni di principio.
E’ una generazione di militanti e di operatori sindacali che rivendica una Cisl capace di mettere in pratica le intuizioni fondative: la centralità delle categorie tipica del sindacalismo angloamericano e aumenti salariali legati alla produttività, studiati al Centro studi di Firenze e poi imposti in tutte le fabbriche in sostituzione dei premi antisciopero, in uso negli anni Cinquanta. Dalle parole ai fatti: nella sola provincia di Milano, tra il 1959 e il 1961, si firmano 170 accordi aziendali.
In mezzo a quei conflitti la personalità di Carniti comincia ad emergere. Diventa protagonista. Riesce a condividere proposte e ad aggregare consensi meglio di altri. “Essere dirigenti significa questo – dirà anni dopo – essere responsabili verso la fiducia che ti è stata accordata sulla base di un grumo di idee condivise, che sei riuscito in qualche modo a coagulare”.
Ne nascono battaglie importanti per la Cisl e per l’intero sindacato: sulla verticalizzazione, l’incompatibilità tra mandato parlamentare e mandato sindacale, il superamento delle differenze normative tra operai e impiegati, l’innovazione delle forme di lotta, la centralità della contrattazione aziendale.
A Milano l’unità d’azione fa passi da gigante. Nel 1962, dopo un crescendo di lotte aziendali avviate dalla vertenza degli elettromeccanici (1960), si decide di far convergere in un’unica manifestazione le vertenze aziendali aperte e le iniziative per il rinnovo del contratto nazionale. 200 mila operai scendono in sciopero, decine di migliaia di manifestanti formano diversi cortei che, partendo dai quattro lati della città, puntano tutti al velodromo Vigorelli.
Da Roma arriva invece una pressione sulla Fim perché ritiri l’adesione alla manifestazione. Mentre si stanno ingrossando i cortei. Carniti decide di “disobbedire” e in contrasto con la segreteria nazionale della Cisl e con il segretario nazionale della Fim, Volonté, decide di parlare ufficialmente, a nome della Fim, accanto a Trentin (Fiom), improvvisando il discorso sul momento.
Al momento di eleggere il nuovo segretario nazionale della Fim, il nome di Carniti comincia circolare, ma alla fine la scelta cade su Macario, dirigente innovativo, capace e sicuramente coraggioso: e proprio Macario farà da ponte tra la generazione dei fondatori e i giovani sindacalisti usciti dal Centro studi di Firenze.
L’intenso ciclo di lotte dei primi anni Sessanta nel milanese fu ricco di risultati, un successo tanto per i lavoratori quanto per le organizzazioni sindacali, quanto infine per i loro dirigenti. La Fiom raddoppiava gli iscritti, la Fim li aumentava cinque volte. (…) Intanto iniziavano ad arrivare gli echi non solo aziendali del lavoro fatto e del percorso compiuto.
La nostra azione sindacale cominciò a diventare qualcosa di più ampio perché aveva trasceso il limite delle vertenze aziendali, per quanto aspre e generose: la prassi rivendicativa assumeva un valore autonomo, politico e culturale, anzitutto per la società milanese e lombarda, ma poi anche nazionale. Se ne accorsero in molti.
Nel 1964 venne l’idea della rivista bimestrale «Dibattito sindacale». (…) Bisognava mettere in circuito energie intellettuali fresche, provare a mettere «l’autonomia alla prova» di un confronto più ampio, non solo pratica sindacale ma anche progetto culturale. C’era l’esigenza di dare un orizzonte più vasto alle lotte operaie, proprio perché il movimento appena innescato non restasse impigliato in un pragmatismo senza principi. Senza complicazioni intellettualistiche, ma anche senza nessuna subalternità culturale. (…) Avevamo alcune idee fisse che ruotavano tutte attorno al concetto della necessaria «autonomia» dell’azione sindacale, con al centro i lavoratori e le loro organizzazioni di rappresentanza, distinti dal padrone, dal partito, dalla chiesa, dalle Acli, e così via.
In quei primi anni Sessanta il nostro impegno andava oltre ogni limite, lo ricordo come un periodo di lavoro folle: bisognava scrivere i volantini, ciclostilarli, andare a distribuirli alzandosi alle quattro di mattina; poi i picchettaggi; nel frattempo scrivevamo i cartelli e andavamo – dico andavamo, proprio tutti gli operatori sindacali – ad attaccarli ai pali; poi c’era il comizio, infine c’era la manifestazione. Insomma si cominciava al mattino alle cinque, la sera alle undici eravamo ancora lì in Via Tadino a finire di discutere il sommario del nuovo numero di «Dibattito sindacale».
Il primo viaggio negli Stati Uniti è per Carniti un’esperienza fondamentale, davvero come scoprire il «mondo nuovo». Entra in decine di local unions, visita una grande quantità di fabbriche in cui ogni aspetto della condizione lavorativa è oggetto di meticolosissimi accordi aziendali, il sindacato conta davvero e il lavoro manuale è riconosciuto e remunerato.
Dignità del lavoro manuale e autonomia del sindacato. Dall’altra parte dell’oceano Carniti comprende meglio il fascino esercitato dal sindacalismo americano su Romani e Pastore: le qualifiche, il posto di lavoro, il controllo della linea di produzione, il risparmio contrattuale, la valorizzazione retributiva del lavoro manuale, il welfare negoziato… un modo di fare sindacato che è davvero una miniera di idee e di suggestioni.
A metà degli anni Sessanta l’Italia attraversa un momento difficile. La congiuntura economica negativa si riflette anche sull’azione sindacale e nel 1966 i metalmeccanici fanno fatica a chiudere il contratto nazionale. Ottengono qualche limitato risultato in materia di parificazione normativa tra operai e impiegati e il passaggio alla riscossione aziendale della delega sindacale.
Dal 1965 Carniti entra in segreteria nazionale ed è tra quelli che spingono a firmare il contratto, nella consapevolezza che non si possa ottenere di più. “Il sindacato ha come unico limite alla sua autonomia la responsabilità di firmare il contratto. Non farlo significa negare la propria funzione”.
Durante gli anni Sessanta nei metalmeccanici si rafforza l’unità di azione, anche a costo di provocare forti tensioni con le rispettive confederazioni. La fine del decennio è segnata dai potenti rivolgimenti culturali, politici e sindacali del biennio ‘68-‘69. Anche i lavoratori si mobilitano, specie dell’industria: si contesta l’autoritarismo nell’organizzazione del lavoro, si chiedono nuovi diritti e migliori condizioni di vita e di lavoro.
Il processo unitario produce anche una diversa organizzazione di fabbrica. “Nell’azione collettiva – dirà Carniti anni dopo – avere ragione non basta, non è sufficiente, se non si ha al contempo la forza per farla valere Per questo motivo nella logica dell’azione sindacale l’organizzazione viene al primo posto: se manca la dimensione organizzativa viene meno la concreta possibilità di provare a cambiare i rapporti di forza, di rendere credibili gli obiettivi. Restano solo la vuota predicazione e la testimonianza generosa”.
A maggio del 1968, Carniti – non ancora trentaduenne – fa il suo ingresso nella segreteria confederale della Cisl, in seguito al conflitto e poi all’accordo sulle regole interne in tema di incompatibilità con la maggioranza guidata dal segretario generale Bruni Storti. Carniti si trasferisce a Roma con tutta la famiglia: moglie e due figli.
È il componente di segreteria più giovane, subito molto ascoltato anche dal segretario generale Storti, che gli affida spesso il compito di introdurre i lavori di incontri e consigli generali, consentendogli così di avanzare scenari e proposte non sempre in linea con la cultura tradizionale della Cisl. Passato qualche anno, sarà poi Storti ad avvicinarsi a Carniti, cogliendo il senso delle trasformazioni che avevano investito la società e il mondo del lavoro.
La prima stagione romana dura solo quindici mesi ed è molto intensa: Carniti segue l’industria, si occupa dello Statuto dei lavoratori e partecipa ai negoziati per l’eliminazione delle gabbie salariali. Una trattativa complessa, che passa anche per momenti di rottura. L’accordo che supera le differenze salariali si firma prima con l’Intersind, il 21 dicembre 1968, e poi – dopo uno sciopero nazionale – anche con Confindustria nel marzo 1969.
Durante quei mesi si costruisce anche l’impianto dello Statuto dei lavoratori: i socialisti, entrati al governo, ne avevano fatto la loro bandiera, mentre la Cisl manteneva ferme molte obiezioni. Carniti lavora con Gino Giugni, Domenico Valcavi e Tiziano Treu sulle diverse bozze del testo, con l’intento di trasformarlo, nella misura del possibile e come poi sarà, da una normativa sui diritti individuali in una legislazione di sostegno alla contrattazione e al sindacato.
Al congresso del 1969 la minoranza Cisl raggiunge quasi la metà dei voti ma non conquista la segreteria confederale. Carniti decide quindi di lasciare e di tornare alla Fim, insieme a Pippo Morelli e, tra gli altri, anche a Raffaele Morese, giovane “esperto” dell’Ufficio Studi confederale. È una scelta che darà grandi frutti e che coincide di fatto con il divampare dell’incendio nella stagione delle lotte operaie che va dal 1968 al 1972.
Anni ’70
L’introduzione dell’incompatibilità tra cariche sindacali e cariche politiche produce un grande sommovimento nella Cisl, accompagnato da una crescente esigenza di ricomposizione interna. Storti chiede a Carniti di tornare nuovamente in segreteria. E Carniti risponde candidando Luigi Macario. L’accordo si fa e il 6 aprile 1970 Carniti viene eletto segretario nazionale della Fim, mentre Macario entra nella Segreteria confederale della Cisl. La frattura interna viene ricucita e i nuovi assestamenti nel gruppo dirigente segneranno fortemente la storia della Cisl – e dell’intero movimento sindacale – per il decennio successivo…
Nel frattempo, i metalmeccanici vanno al rinnovo del contratto. Per la prima volta, nella costruzione della piattaforma, il sindacato chiede ai lavoratori di scegliere tra due posizioni alternative sul salario. La Fiom propone un aumento in percentuale e resta nella tradizione. La Fim lancia la rischiosa e sfidante parola d’ordine degli aumenti uguali per tutti. Una proposta che è anche frutto della collaborazione tra la Fim, un gruppo di giovani sociologi milanesi che lavora con il professor Baglioni (Bruno Manghi, Gian Primo Cella, Guido Romagnoli, Ettore Santi…) e, per i profili giuslavoristici, con Tiziano Treu.
Il tema dell’uguaglianza retributiva coglie lo «spirito del tempo» ed esprime il rifiuto per una gestione discriminante e paternalistica delle differenze salariali e dei meccanismi premianti da parte aziendale. Fiom e Cgil sembrano non cogliere la portata innovativa della richiesta Fim. Per Carniti si tratta invece di una vera e propria questione di principio: la dignità del lavoro si valorizza attraverso criteri oggettivi di classificazione delle mansioni e i premi concessi discrezionalmente dalle aziende sulla base della fedeltà vanno definitivamente superati.
La partecipazione operaia alle lotte 1969-72 assume una dimensione eccezionale: le giornate di lavoro perse toccano un picco mai raggiunto, né prima né dopo quegli anni. Determinanti per la mobilitazione – dirà poi Carniti – furono «l’incrocio tra la richiesta unificante degli operai del ’69 di maggiore eguaglianza e (…) la richiesta degli studenti del ’68 di maggiore libertà; in terzo luogo, la determinazione della destra, ben presente in entrambe le controparti (l’imprenditoria e le istituzioni) nel rifiutare i nuovi rapporti di forza, ostinandosi a negare la necessità di nuovi assetti di governo dentro e fuori ai luoghi di lavoro».
A fine 1969, la coincidenza temporale tra le bombe di Piazza Fontana (12 dicembre) e la firma del contratto dei metalmeccanici (21 dicembre) simboleggia emblematicamente anche l’inizio di una spirale malata che intreccia centralità del lavoro, conflitto politico e ricorso alla violenza e che attraverserà l’intero decennio successivo.